Lucia Frattarelli Fischer

Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

CV →

 

 

 

LA PUPILLA DELL’OCCHIO DELLA TOSCANA: LA CITTA’ DI LIVORNO E IL SUO PORTO IN ETA’ MEDICEA

Il successo di Livorno si impose nel Seicento come modello economico, Lo sviluppo delle strutture portuali (la costruzione del molo, il sistema sanitario, le esenzioni doganali, i magazzini, le leggi popolazionistiche, in particolare i privilegi assicurati dalla celebre ‘Livornina), sono considerati all’ origine del successo del porto franco. La città divenne, infatti, il principale porto di deposito e smistamento delle merci provenienti da Levante e da Ponente, assumendo, per certi aspetti, le caratteristiche di uno spazio interstiziale neutrale capace di svolgere una funzione di coordinamento del commercio interculturale nel Mediterraneo e su lunga distanza. L’intervento intende raccontare, con il sussidio di un percorso iconografico, l’evoluzione della città  in età medicea.

THE PUPIL OF THE EYE IN TUSCANY: THE CITY OF LIVORNO AND ITS PORT IN MEDICEAN TIME

The success of Livorno prevailed in the seventeenth century as an economic model. The development of port facilities (the construction of the pier, the health system, customs exemptions, warehouses, population laws, in particular the privileges secured by the famous “Livornina”), are considered at the origin of the success of the free port. In fact, the city became the main deposit and distribution port of goods coming from East and West, assuming, in certain aspects, the characteristics of a neutral space capable of carrying out the coordination of inter-cultural commerce in the Mediterranean area and on long distance. This article aims to tell the evolution of the city in the middle ages with the help of an iconographic path.

L’intuizione che una città portuale fornita di strutture mercantili come magazzini, abitazioni, lazzaretti e servizi potesse svilupparsi e decollare con successo si deve al granduca Francesco I, che nel 1575 commissionò il progetto per una città fortificata sul porticciolo di Livorno al suo architetto di corte Bernardo Buontalenti.
Il mare era stato l’obiettivo a lungo perseguito dalla politica espansionistica di Firenze: la conquista di Pisa nel 1406, l’acquisto di Livorno dai genovesi per 100.000 fiorini nel 1421, il potenziamento del porticciolo con la costruzione della Torre del Marzocco e della fortezza bastionata di Antonio da Sangallo (1518-1537), poi Fortezza Vecchia, sono alcune tappe dell’intervento diretto dello stato fiorentino, indicative di un interesse che si snoda per alcuni secoli.
Con la riforma della dogana del 1566 l’intervento cambia di segno: le modeste imposte di stallaggio e di transito resero il porto Livorno un luogo privilegiato di confluenza di navi che arrivano da Alessandria d’Egitto, dalla Sicilia, dalla penisola iberica, dalla Francia e anche dall’Inghilterra. La presenza di navi inglesi (nel 1574 ben cinque navi delle 15 ancorate a Livorno sono inglesi) è l’elemento nuovo nel Mediterraneo e ai funzionari fu imposto di dare loro ogni facilitazione. Negli stessi anni Livorno, collegato tramite il Canale dei navicelli (scavato tra il 1564 e il 1574) con la città emporio di Pisa e tramite l’Arno con Firenze, diventa lo sbocco di una complessa infrastruttura che forma l’asse di sviluppo della Toscana moderna.
Tuttavia dobbiamo valutare con ammirazione il notevole anticipo con il quale si dette avvio all’ambizioso progetto di costruire su una costa paludosa una città nuova: il fenomeno di fondazioni di città portuali si diffuse infatti in Europa solo nel Seicento. Bernardo Buontalenti, applicando i modelli della trattatistica sulla città ideale, disegnò un circuito bastionato pentagonale, che nel tempo doveva contenere 12.000 abitanti. Nel 1575 il perimetro della nuova città fu tracciato sul terreno per procedere alla misurazione e all’esproprio dei suoli di proprietà privata necessari per la costruzione delle cinta bastionata, delle aree di servitù militari e delle aree nelle quali sarebbe sorta la città. Il cantiere fu affidato all’Ufficio della Fabbrica gestito da un provveditore che si occupava della direzione economica e da due architetti per la progettazione delle fortificazioni e per l’urbanizzazione della città. Livorno è dunque innanzitutto una città regia, voluta direttamente dal potere statale.
Grande impulso alla costruzione di case e alla emanazione di privilegi popolazionistici fu dato, a partire dal 1590, dal granduca Ferdinando I, considerato il vero padre della città nuova. Molti provvedimenti fra loro intrecciati si realizzarono fra il 1590 e il 1593, anni in cui la grande carestia che afflisse l’Italia permise al granduca di far decollare Livorno come porto dei grani. Il processo di urbanizzazione all’interno della cinta fortificata, favorito da ingenti investimenti statali o di enti controllati dal granduca, fu accompagnato da una sistematica politica popolazionistica. Alcuni bandi, in rapida successione, attirarono abitanti con le più diverse specializzazioni. Il primo bando (1590), fu rivolto ai greci, esperti marinai e calafati. Il secondo, dell’ottobre 1590, fu diretto ad artigiani forestieri: manifattori di sartie, calafati, maestri d’ascia, legnaioli, muratori, fabbri, scalpellini, pescatori, marinai «e ogni mestiere manuale fuori che braccianti e vangatori». Il terzo, del 10 luglio 1591, ampliato nel 1593, è l’invito destinato a tutti i mercanti ponentini e levantini, conosciuto come «Livornina». Il documento concedeva ai mercanti privilegi economici, agevolazioni doganali e agli ebrei e ai protestanti il diritto di professare la propria religione e la protezione dall’Inquisizione. Il bando nel tempo promosse l’insediamento a Livorno degli ebrei, dei greci, degli armeni e dei nordici (inglesi, olandesi, tedeschi) di fede protestante. Non senza difficoltà i granduchi medicei riuscirono a garantire alle minoranze religiose la libertà di professare la propria religione e a proteggere i singoli durante i processi inquisitoriali impiegando le pratiche della diplomazia e della dissimulazione.
La crescita della popolazione e dei traffici mercantili fu sostenuta da grandi, grandissimi investimenti profusi per potenziare le strutture portuali. Nel 1590 fu scavata una nuova darsena, tra il 1611 e il 1621 fu costruito il molo Cosimo (oggi molo Mediceo), a metà del ‘600 il porto ferdinandeo, si costruirono lazzaretti per lo sciorino delle merci provenienti da zone colpite dalla peste, magazzini e buche da grano. Ma non dobbiamo immaginare che per il piccolo stato italiano fosse facile restare in equilibrio tra le aggressive potenze europee e mediterranee.
Cruciali per il mantenimento della neutralità del porto franco e quindi per lo sviluppo dei traffici mercantili furono le temperie della ultime fasi della guerra dei Trenta anni. Ferdinando II per mantenere la neutralità del porto fu costretto a concedere alla Francia le stesse condizioni accordate alle altre potenze. Nello stesso frangente, a causa di gravi problemi economici, decise di vendere al principe Grimaldi di Monaco (prestanome del re di Francia) quattro delle sei galere della sua flotta e cercò di rilanciare il porto come base degli scambi tra Oriente e Occidente. Nel 1646 una legge doganale concesse “il beneficio libero” cioè il diritto di mantenere nei magazzini di Dogana per un anno senza pagare le gabelle le merci invendute in attesa di trovare un compratore. Il granduca concesse agli armeni e agli ebrei la possibilità di aprire una tipografia in caratteri armeni e una in caratteri ebraici per favorire l’esportazione verso le comunità della diaspora nel Mediterraneo. Il granduca stesso si fece ritrarre in vesti turchesche e per lanciare il carattere cosmopolita del porto franco fece coniare monete che sul rovescio rappresentavano il porto di Livorno con il suo fanale. Cominciò così a circolare nel Mediterraneo sulle monete d’argento coniate in Toscana l’immagine di Livorno e del suo porto: a cui si aggiunge nel 1655 anche un tallero in oro che reca la legenda “Diversis gentibus una”, una moneta che insieme all’immagine della città portuale intende rappresentare anche la sua identità sociale più profonda, cioè la capacità di accogliere e mescolare più culture e gente di provenienza diversa. Il rilancio del commercio fu sostenuto dalla costruzione di una nuova dogana che si apriva sul porticciolo. Il grande edificio (oggi sede della Camera di commercio) ospitava la Compagnia dei facchini bergamaschi, la stanza del peso, uffici ed enormi magazzini, in cui mantenere le merci che godevano del beneficio libero.
L’arrivo dei mercanti delle diaspore con le loro reti di commercio interculturale (cross-cultural trade) rese il porto di Livorno lo scalo più importante del Mediterraneo e, a metà del Seicento, Livorno acquistò pienamente importanza come nodo di connessione tra i circuiti commerciali del Levante e quelli del Nord Europa e la rete di cabotaggio peninsulare. I negozianti ebrei gestivano un ampio spettro di attività come mediatori tra il mondo cristiano e quello musulmano per il riscatto degli schiavi e per il commercio mediterraneo. I grandi mercanti ebrei sefarditi adottarono un sistema di irraggiamento su base familiare che si stendeva da Livorno a Smirne ad Amsterdam, alle Americhe e all’India. Grazie a loro Livorno divenne il maggior centro di lavorazione ed esportazione del corallo mediterraneo che veniva scambiato con i diamanti e gli smeraldi dell’India.
La nazione inglese era piccola ma molto ben strutturata, e molto importante da un punto di vista economico, politico e religioso. in quanto era parte della British Factory una sorte di corporazione mercantile che raccoglieva tutti i mercanti inglesi che si occupavano di commercio in una vasta rete globale. . Livorno divenne il principale importatore e distributore di nuovi generi di consumo come lo zucchero, il baccalà, le aringhe e il tabacco
I mercanti di ogni confessione religiosa, richiamati dalle facilitazioni del porto franco e dai privilegi accordati dalle Livornine riuscirono a far decollare l’insediamento abbastanza rapidamente tanto che l’impianto urbano originario si dimostrò già dopo cinquant’anni insufficiente. Si imposero con urgenza all’attenzione della corte i problemi logistici legati al carico e allo scarico delle merci e al loro immagazzinamento. Molto si è favoleggiato nella storiografia locale di un progetto per un’addizione costruita su 28 isolotti collegati da ponti sui canali. Ma nei fatti si procedette in fasi successive. La costruzione del primo lotto fu affidato al provveditore dell’arsenale di Pisa Giovan Battista Santi che su una striscia di terreno tra il Canale dei navicelli e il mare dette l’avvio al consolidamento del terreno per costruire un lotto di case richiesto da manifattori (fabbri, fonai, ciabattini) uniti nella confraternita intitolata alla Natività. Per superare la difficoltà di fondare gli edifici in acqua furono fatti arrivare capomastri da Venezia di qui il nome di “Venezia”, che fu dato al quartiere. Il progetto fu interrotto nel 1630 a causa della peste, e fu ripreso e portato a termine fra la fine del Seicento e il primo ventennio del Settecento.
Centro nodale della trasformazione urbana fu il nuovo assetto dato al porto franco con l’editto del 1676, con il quale Cosimo III si propose di conformare le legislazione doganale alle richieste dei grandi mercanti e di favorire lo sviluppo del porto di deposito. Parte integrante del progetto furono l’abbattimento di parte della fortezza Nuova con la finalità di recuperare un’ampia area per la costruzione di un quartiere mercantile con case e magazzini e la costruzione, su terreni strappati al mare, di un nuovo sistema di fortificazioni. L’attuazione del progetto comportò lo spostamento dell’ingresso del Canale dei navicelli nel fosso circondario, dove fu costruita la nuova dogana, trasformando così l’intera città in area di deposito delle merci del porto franco. Il grande piano di ammodernamento delle fortificazioni secondo le modalità intraprese in Francia da Vauban aveva la finalità di garantire il controllo dell’intero specchio di mare su cui erano alla fonda le navi e i vascelli. Nel 1692 infatti il granduca ottenne finalmente che il riconoscimento della neutralità del porto franco di Livorno, prima concordata di volta in volta con i consoli, fosse riconosciuta formalmente per via diplomatica. Nel Mediterraneo percorso dalle flotte delle potenze europee in guerra, fu così possibili che i vascelli di potenze nemiche potessero approdare a Livorno, acquistare merci e ripartire in sicurezza.
Con lo spostamento della dogana sul fosso circondario l’intera città divenne area del porto franco e quello di Livorno si configurò come un grande porto di deposito nel quale i mercanti potevano stivare e poi esportare tutte le merci che confluivano da tutte le regioni del mondo. L’editto del 1676 stabiliva infatti che tutte le merci introdotte a Livorno, pagato un diritto di stallaggio, potessero essere vendute e riesportate senza altri controlli doganali. Nell’area della abbattuta Fortezza Nuova, prese avvio la costruzione di un nuovo quartiere mercantile. L’Ufficio della Fabbrica granducale si occupò di ridurre i fossi militari e di costruire le spallette trasformandoli in vie d’acqua fornite di approdi per il carico e scarico delle merci. La possibilità di servirsi di vie d’acqua per trasportare le merci con i navicelli direttamente dalle navi ai magazzini e viceversa senza costosi trasbordi resero molto interessanti i siti lungo le vie d’acqua e i mercanti internazionali investirono somme notevoli per costruire i loro palazzi. A Livorno a differenza delle dimore patrizie alle quali pure si ispiravano, i palazzi dei mercanti contenevano anche gli uffici ed erano provvisti di grandi magazzini a volta, una sorta di cattedrali delle merci, che dal livello del canale si innalzavano per più piani. Il gran principe Ferdinando, figlio di Cosimo III ed erede al trono, si insediò per lunghi periodi a Livorno richiamando i maggiori artisti di corte che operarono per la committenza privata e nelle chiese e nei palazzi che sorsero nel nuovo quartiere. Il quartiere prese il nome di Venezia Nuova per sottolineare il ruolo dei canali che divennero le vie d’acqua del porto di deposito. Ma non solo merci. Per via d’acqua si raggiungeva sul Fosso reale un ameno luogo di ritrovo con una peschiera, giardino e capanni privati, dove si riuniva la società galante e cosmopolita della città.
Grazie ai traffici mercantili e al grande volano economico rappresentato dalla costruzione della città la popolazione fece in pochi anni un rapido balzo dai 500 abitanti del 1590 ai 3000 del 1606, anno nel quale fu dota a Livorno il titolo di città, fino a raggiungere i 30000 abitanti a metà del ‘700. Livorno  rappresenta dunque l’esempio più rilevante in Italia di crescita demografica di una città non capitale.
Nel 1728  Montesquie così la descrive in una pagina famosa la città:
Livorno è una gran bella città,  molto popolata e ben fortificata . Le vie sono larghe, dritte ben tracciate. La piazza è molto grande, e la città ridente. Ci saranno 40.000 abitanti di tutte le razze: Greci armeni, Cattolici, protestanti, ma gli ebrei arrivano a 6 o 7000, e sono fortemente protetti dal governo. Il commercio principale si fa con l’Inghilterra; poi con la Francia e con l’Olanda. E il commercio con l’Inghilterra aumenta.
Una descrizione dalla quale si colgono i caratteri essenziali di Livorno; i commerci internazionali, l’impianto urbanistico razionale, l’energia cosmopolita che rendeva possibile la convivenza di abitanti di tutte le provenienze, che non professavano la stessa religione.
Una descrizione che, ripesa dai viaggiatori del Gran Tour, contribuirà a diffondere l’immagine di Livorno come esempio di tolleranza religiosa.