Maurizio Vernassa

Università di Pisa, Dipartimento di Scienze Politiche

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DAL PORTO FRANCO ALLA GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI: APPUNTI SU TRASFORMAZIONI E SFIDE DELL’ECONOMIA PORTUALE LIVORNESE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Attraverso questo contributo ho cercato di definire per sommi capi le principali trasformazioni che hanno interessato il porto di Livorno nel corso dei secoli XIX e XX, mutandone profondamente ruoli, funzioni e identità. Per un lungo periodo il successo della città-porto di Livorno era stato determinato dalla sua straordinaria capacità di adattamento ai cambiamenti, fondata essenzialmente sul fatto che il porto e la città rappresentavano una sola entità con l’assoluta prevalenza degli interessi derivanti dai traffici commerciali. Un equilibrio virtuoso che aveva garantito al porto di deposito di Livorno l’assunzione di un ruolo protagonista nello scenario internazionale. I mutamenti geopolitici intervenuti alla fine del XVIII secolo e l’evoluzione economica internazionale (modificazione dei traffici internazionali, innovazione dei modi di produzione, nuove tecniche nel trasporto navale, ecc.) determinarono una sequenza ininterrotta di crisi che si prolungò fino ed oltre l’unificazione nazionale. I provvedimenti assunti dal Governo granducale per fronteggiare la situazione che si era andata producendo, mancarono di una visione di insieme, una strategia che prefigurasse la strada per dare all’economia portuale livornese un avvenire. Si determinò una sempre più evidente divaricazione tra la città ed il suo porto, destinata a permanere in modo marcato nel lungo periodo. L’abolizione del porto franco del 1865 rappresentò contemporaneamente il culmine di questo processo e l’avvio di un faticosissimo tentativo di rilancio. La strada scelta sia dai governi postunitari,  che, ancora più decisamente, da quello fascista, fu quella di sostenere con sostanziosi interventi pubblici l’ammodernamento portuale, subordinandola costantemente alla crescita industriale e produttiva dell’area livornese, anch’essa finanziata e sorretta dall’intervento finanziario dello Stato. La lunga parentesi bellica e postbellica della Seconda guerra mondiale, che produsse una nuova crisi profonda nell’economia portuale, non modificò in modo significativo gli indirizzi assunti dai decisori politici che fino alla fine degli anni Settanta continuarono a guardare al porto essenzialmente come corollario del sistema produttivo locale. Solamente nell’ultimo ventennio, in concomitanza con la progressiva riduzione delle attività manifatturiere dell’area livornese e l’evoluzione dei traffici internazionali, il porto di Livorno sembra aver finalmente riconquistato una propria autonomia di sviluppo, legata ai flussi commerciali ed alla logistica.

FROM THE FREE PORT TO THE GLOBALIZATION OF MARKETS: NOTES ON TRANSFORMATIONS AND CHALLENGES OF LIVORNO’S PORT ECONOMY BETWEEN THE NINETEENTH AND TWENTIETH CENTURY

Through this article I have tried to briefly define the major changes that have affected the port of Livorno during the nineteenth and twentieth century, profoundly changing its roles, functions and identity. For a long period of time, the success of the port-city of Livorno was determined by its extraordinary ability to adapt to changes, based essentially on the fact that the port and the city were a single entity with an absolute predominance of interest coming from the trade. A virtuous balance which guaranteed the deposit port of Livorno a leading role in the international arena. The geopolitical changes which occurred in the late eighteenth century and the international economic evolution (modification of international trade, innovation of production methods, new techniques in naval transport, etc.) determined an uninterrupted sequence of crisis which continued up to and beyond the national Italian unification. The measures taken by the Government of the Grand Ducal to face this situation, lacked of an overall vision, a strategy that prefigured the path to guarantee a future to the economy of Livorno’s port. This lead to an increasing gap between the city and its port, destined to remain markedly so on the long run. The abolition of the free port in 1865 represented both the culmination of this process and the start of an exhausting attempt to raise. The path chosen whether by post-unification governments, or, even more significantly, from the fascist one, was to support with substantial government intervention the modernize of the port, subjecting it continuously to the industrial and production growth of Livorno, which was also funded and supported by financial intervention of the State. The long period of war and post-war World War II, which produced a new deep crisis in the port’s economy, did not alter significantly the orientations given by politicians which even until the end of the seventies essentially continued to look at the port as a corollary of the production system local. Only in the last twenty years, in conjunction with the progressive reduction of the manufacturing area of Livorno and the evolution of international trade, the port of Livorno seems to have finally regained its autonomy of development, linked to trade flows and logistics.

intervento completo

Sintesi:
1.    Per secoli il successo della città-porto di Livorno era stato determinato dalla sua straordinaria capacità di adattamento ai cambiamenti, fondata essenzialmente sul fatto che il porto e la città rappresentavano una sola entità con l’assoluta prevalenza degli interessi derivanti dai traffici commerciali. Il profilo urbanistico della città era stato quindi modellato secondo i parametri dettati dall’insediamento portuale.
2.    La modificazione degli assetti geopolitici durante il periodo napoleonico, e la crisi dei traffici che ne derivò, spinse da allora a sostenere l’attività manifatturiera locale e regionale, la cui produzione non fu sufficiente tuttavia a sostituire la mancanza di competitività del porto. Né furono sufficienti le prime significative opere di ammodernamento portuale (diga rettilinea e curvilinea/ Molo Novo).
3.    La fine delle franchigie doganali (il regime di “porto franco”) nel 1865 segnò l’avvio di una decisa azione di sostegno pubblico. Nel 1922 con il progetto Coen Cagli venne attuato un notevole ampliamento dell’area portuale (espansione verso Nord), in larga parte destinata all’insediamento di nuove fabbriche. L’economia portuale era essenzialmente pensata in funzione della crescita industriale locale e nazionale, continuando a non essere competitiva su scala internazionale.
4.    Le distruzioni belliche e la lunga occupazione di parte dell’aera portuale da parte del Comando SETAF ridussero ulteriormente le capacità competitive del Porto. La ricostruzione fu realizzata secondo il modello ereditato dal passato, ovverosia pensando al porto come appendice del sistema produttivo locale.
5.    Il primo Piano Regolatore Portuale (P.R.P.), ispirato da questa filosofia, fu approvato nel 1953 ed è rimasto in vigore, con successive ed importanti  varianti, fino ai primi mesi del 2015. Nel corso di questi anni si ebbe la realizzazione di numerose nuove infrastrutture, tra le quali va segnalata per importanza strategica la nuova Darsena Toscana (1976-2014) con una capacità di movimentazione di 900.00 teus /anno.
6.    La nuova metodologia della pianificazione delle aree portuali, introdotta dalla Legge 28 gennaio 1994 e sfociata nell’approvazione del nuovo P.R.P. (2015), segna una netta chiusura rispetto al passato ed apre una fase di difficile confronto sugli scenari internazionali. Il porto torna finalmente a guardare alla propria missione di sviluppo, vincolandosi prioritariamente alla vocazione commerciale e proponendosi come motore di innovazione e sviluppo per l’intero territorio di riferimento.

Nel presentare queste brevi note, che vogliono rappresentare essenzialmente una sintetica e modesta introduzione a tematiche di ampia portata, sento l’obbligo di fare una necessaria premessa. Come ci ricorda Samuel Fettah, Livorno rappresenta nel corso di tutta la sua lunga storia l’esempio, non unico ma certamente il più chiaro (almeno nel Mediterraneo), di una “ville-port” in possesso di una “singolare capacità di adattamento” nell’ambito di uno spazio (mediterraneo) in continua mutazione (FETTAH, 1998). Porto e città sono stati per secoli una sola identità con l’assoluta prevalenza degli interessi derivanti dai traffici commerciali (FILIPPINI, 2009). Un lungo periodo nel quale le molteplici variazioni intervenute riguardarono essenzialmente la natura delle merci, la loro provenienza e la loro destinazione, nonché il loro controllo strategico, non intaccando se non in superficie l’essenza ovverosia l’importanza economica del porto. Una situazione destinata a perdurare fino all’inizio del periodo qui trattato, nel quale, mutando le condizioni generali (oggi diremmo globali) di carattere economico e geopolitico, iniziarono progressivamente ad incrinarsi per poi distaccarsi definitivamente, divaricandosi, le due realtà.
Volendo, con molta difficoltà, individuare l’inizio di questa progressiva separazione di finalità, obiettivi, funzionalità e, quindi, modi di essere, potremmo prendere a riferimento (si badi bene, in questo caso l’interpretazione è necessariamente soggettiva!) la grande crisi economica che attraversò l’economia portuale livornese in conseguenza del blocco navale inglese nel corso delle guerre napoleoniche. Allo straordinario e ininterrotto sviluppo del XVII secolo, durante il quale le funzioni del porto si erano completamente staccate dal contesto economico regionale, assumendo definitivamente il carattere di emporio internazionale rilevante nell’economia mondiale, stabilendo rapporti intensissimi con la Gran Bretagna, con l’Olanda, con il Portogallo, con tutto il Mediterraneo, con l’Impero ottomano, era seguito un periodo di grande prosperità sotto la gestione lorenese iniziata nel 1737 e prolungatosi fino ai primi anni della Rivoluzione francese. Non che fino allora fossero mancate crisi più o meno prolungate, dovute a molteplici fattori (tra i quali ricordiamo le emergenze sanitarie) per lo più di natura internazionale data la dipendenza dei traffici portuali livornesi dalle “bandiere straniere”, ma esse erano state continuamente e brillantemente  superate grazie a quella straordinaria adattabilità e/o flessibilità cui facevamo riferimento prima. In concreto, in uno scenario completamente mutato e in successiva e progressiva modificazione, il porto di Livorno (e il suo sino ad allora inseparabile corollario cittadino) mostrò maggiori difficoltà a superare il forte calo del movimento commerciale basato sul commercio di deposito ripiegando per alcuni anni sul cabotaggio, ovverosia su traffici di minore portata basati su viaggi di corto raggio e sotto costa. E’ pur vero che a partire dal 1814 si verificò una notevole ripresa, favorita sia dall’espansione dei traffici transatlantici (con un apporto significativo delle merci provenienti dagli Stati Uniti, che già si erano affacciate a Livorno negli anni finali del secolo XVIII), sia dall’esplosione delle attività commerciali con l’Impero ottomano ed il Mar Nero (importazione di grani), tanto da collocare nel 1832 Livorno al quinto posto fra i porti del Mediterraneo. Ma già a partire dal 1830 la funzione di porto di deposito venne affiancata da un significativo quanto effimero flusso commerciale di provenienza regionale con l’esportazione di vino, bacche di ginepro, alabastro, seta lavorata, cremor di tartaro, organzino e borace, e con l’importazione di salumi, manufatti, prodotti tessili, cera e frumento.
Occorre infine notare che la Restaurazione granducale (Ferdinando III 1815-1824) ridusse fortemente l’autonomia amministrativa fino ad allora concessa a Livorno e abolì formalmente i privilegi delle Livornine, mantenendo unicamente le esenzioni fiscali connesse al porto franco. La consapevolezza dei contemporanei di essere in presenza di un profondo cambiamento è testimoniata dall’imponente progetto politico di trasformazione urbana/portuale, avviato a partire da questi anni dal Granducato.
L’ampliamento della città realizzato nella prima parte dell’Ottocento (BORTOLOTTI, 1970), che ancora segna gran parte della situazione urbanistica attuale, da una parte prendeva atto dello sviluppo esponenziale della città nei sobborghi e dall’altro perseguiva l’obiettivo di sostenere con grande impegno la declinante attività del commercio di deposito, a discapito dello sviluppo manifatturiero e protoindustriale, che già da qualche decennio stava animando la città. In realtà la lenta ma costante decrescita del commercio di deposito aveva determinato una riconversione dei capitali presenti sul territorio verso la manifattura e l’industria. Le attività produttive emergenti (fabbriche di allume, amido, birra, cappelli, cartone, coltelli, raffinerie di olii alimentari, mulini a vapore, fabbriche di munizioni, saponi, valigie e selle) si erano per lo più insediate intorno alla vecchia cinta muraria (ovverosia fuori della cinta daziaria, all’interno della quale si godevano i benefici fiscali del porto franco), nei pressi della strada per Pisa e per Firenze. In modo analogo altre produzioni si trovavano, sempre all’esterno della città, nel versante meridionale (industrie di birra, candele, carta colorata, manifatture del vetro e le conce del cuoio).
Anche per i benefici effetti dei provvedimenti granducali, almeno fino al 1844 più che di crisi economica vera e propria sembrerebbe più corretto parlare di stagnazione nei traffici e nei commerci livornesi, indotta essenzialmente dall’evoluzione economica internazionale.  La profonda crisi che colpì in quegli stessi anni la piccola imprenditoria risultò per alcuni anni calmierata dalla stabilità dei settori della cantieristica e dei comparti che producevano per l’esportazione (soprattutto marmi), mentre andava dissolvendosi la possibilità di stabilire contatti con l’economia regionale.
Gli anni successivi registrarono il consolidamento della divaricazione porto/città ed un progressivo ed inarrestabile aggravamento della situazione economica. I cambiamenti strategici prodotti nel Mediterraneo dall’introduzione della navigazione a vapore, la necessità di scali portuali più sicuri e adeguati, l’espansione dei traffici oceanici, l’incidenza dei manufatti industriali negli scambi, la tendenza dei produttori nazionali e internazionali a commercializzare direttamente eliminando le intermediazioni, le conseguenze drammatiche dell’epidemia di colera del 1835, la mancanza continua di lavoro e la condizione sempre più asfittica dei traffici portuali, sommandosi tra loro, determinarono a Livorno una tensione sociale molto acuta che si manifestò in tutta la sua gravità nel biennio 1948/1849. Mancò in sostanza una visione d’insieme che prefigurasse la strada per dare all’economia portuale livornese uno sbocco, un rilancio, un avvenire: caratteristica destinata a permanere a lungo nelle vicende legate al porto. Molte iniziative furono prese dal governo granducale per impedirne il declino, ma esse mancarono di organicità complessiva. Nel corso del periodo nella città furono realizzate numerose ed importanti opere, tutte però indirizzate ad interventi non coordinati tra loro, tesi di volta in volta a migliorare la viabilità, i trasporti e l’igiene e sempre nell’ottica di una politica tendenzialmente indirizzata alla valorizzazione delle aree ed al sostegno di operazioni edilizie intraprese dai privati e soprattutto separando ancora di più l’insediamento urbano dai destini del porto. Ecco quindi che anche i consistenti investimenti finalizzati all’ammodernamento e alla messa in sicurezza del porto con la realizzazione delle dighe foranee (diga rettilinea e curvilinea/”Molo Novo”), iniziati nel 1852 e terminati nel 1858, primo vero intervento di profonda modificazione dell’impianto portuale mediceo e mirati all’espansione portuale, non ebbero significativi esiti sul decollo economico dei traffici. Un’ultima annotazione va dedicata a questo periodo di malessere economico e sociale: nel corso dell’ultimo ventennio di potere i Lorena scelsero di coinvolgere la città nell’area economica triestina, vero polo strategico per l’Impero austriaco, assegnando a Livorno la funzione di terminal secondario, mentre l’economia portuale livornese continuava a guardare al più interessante e ricco mercato anglo-francese. Il distacco della borghesia livornese dai destini granducali fu da allora in avanti irreversibile e l’adesione dell’intera città (ceti popolari in primis) alla causa nazionale si manifestò con grande evidenza quando nell’aprile del 1859 i Lorena vennero cacciati dal granducato e Livorno si distinse per manifestazioni di entusiasmo in una regione largamente disinteressata.
L’avvento del Regno d’Italia coincise con l’avvio di nuove politiche attestanti la volontà di fronteggiare i nuovi equilibri internazionali in materia di traffici portuali. La prima misura, in apparente contrasto con gli interessi del porto livornese, fu l’eliminazione delle franchigie doganali di cui ancora godevano i porti di Ancona, Livorno e Messina. Varato nel 1865, il provvedimento entrò in vigore nel 1868 e fu accompagnato da decisioni tese ad ampliare le manifatture locali nella speranza che esse potessero dare nuovo slancio ai traffici. Ma si trattava di una speranza poco fondata, dal momento che, accanto all’arretratezza delle strutture portuali, i bassi fondali e l’onerosità dei costi di manipolazione delle merci, il vecchio impianto produttivo manifatturiero preunitario non era assolutamente in grado di affrontare  la concorrenza dei paesi industrialmente più avanzati. Importanza enorme, anche e soprattutto per gli anni successivi, ebbe la creazione del cantiere navale avviato dai fratelli Salvatore, Paolo, Giuseppe e Luigi  Orlando, ai quali lo Stato concesse in affitto per 30 anni l’area dell’ex Lazzeretto di San Rocco, già vecchio arsenale mediceo, per la costruzione di navi militari in ferro e a vapore dove venne ampliata la darsena antistante (la Darsena Nuova). La localizzazione consentiva agevolazioni per l’importazione di semilavorati, di combustibili e macchinari, provenienti soprattutto da Francia e Gran Bretagna. L’attività produttiva del cantiere, sulla quale gravavano rilevanti problemi strutturali che lievitavano i costi di produzione, fu avviata alla metà degli anni ’70 e continuò per tutto il decennio successivo grazie alla legge a favore della marina mercantile del 1885 (premi di costruzione e navigazione), legandosi strettamente alla nascente industria siderurgica italiana (Terni), ai cantieri liguri di Attilio Odero e al più importante istituto di credito nazionale, la Banca Commerciale Italiana, e partecipando attivamente allo sviluppo industriale dell’Italia giolittiana. Nonostante il più che consistente effetto occupazionale prodotto dal settore cantieristico (più di 2.000 occupati ), la città proseguì per anni a risentire della crisi dei traffici portuali ed anche le successive diversificazioni, varate dalla famiglia Orlando agli inizi del ‘900 e riguardanti l’industria del rame, di cui esistevano alcuni modesti giacimenti nei dintorni di Livorno, per la fornitura di semilavorati di cavi elettrici e la produzione di munizioni, non contribuirono a risollevare i destini del porto (che comunque si specializzò con successo nell’importazione del carbone, proveniente dal Regno Unito, necessario ad alcuni impianti industriali locali). In parallelo si era lentamente risvegliata l’attenzione per gli assetti infrastrutturali del porto: nel 1881 furono approvati i finanziamenti per la nuova Diga della Vegliaia e per il completamento del bacino di carenaggio; poco dopo si allargò una banchina del Porto Mediceo (l’Andana degli Anelli), che fu completata tra il 1894 ed il 1895, e nel 1908  furono realizzate le dighe del Marzocco, della Meloria (proseguimento della diga curvilinea), il banchinamento esterno della diga rettilinea con fondali a 9 metri. La situazione rimase fluida ed altalenante fino alla fine della prima guerra mondiale quando, cessata una breve parentesi di crescita dei traffici, divenne evidente la sovrapproduzione del settore navalmeccanico, nonostante le continue commesse statali a suo favore. La terribile crisi che investì la cantieristica italiana non risparmiò infatti il Cantiere livornese, anche e soprattutto in conseguenza dei suoi limiti strutturali, riassumibili in problemi di spazio e di bassi fondali che ne compromettevano la capacità costruttiva e determinavano alti costi di produzione. La situazione fu tamponata dall’intervento dello Stato nel 1923 con provvedimenti di sostegno alle costruzioni navali grazie all’allora commissario per la marina mercantile nel governo fascista, il livornese Costanzo Ciano. Lo stesso Ciano si adoperò poco dopo a favore del Cantiere livornese sia per l’assegnazione di importanti commesse, sia per la cessione definitiva dell’area della Bellana, confinante a sud con l’impianto industriale. Uno sforzo finanziario pubblico notevole che però non produsse risultati positivi: il Cantiere Orlando continuò a registrare ingenti perdite fino al 1929, anno in cui su pressione della Banca Commerciale fu incorporato nella nuova società Odero-Terni-Orlando (Oto). I successivi sviluppi portarono il cantiere, sempre più in difficoltà per l’agguerrita concorrenza asiatica, sotto il controllo dell’Ansaldo fino al 1965 e qualche anno dopo di Fincantieri, per poi essere ceduto ad un Consorzio di cooperative nel 1994. A partire dal 2003 gli impianti vennero ceduti al gruppo Azimut Benetti, leader mondiale nella produzione di grandi yachts.
A Costanzo Ciano si dovette inoltre la ripresa di un progetto di espansione del porto, già ipotizzato all’inizio del secolo e poi accantonato per l’eccessiva onerosità. Si scelse di proiettare il porto verso Nord nello specchio acqueo in cui si affacciava il Canale dei Navicelli, realizzando tre nuovi bacini dotati di buone profondità, di calate indispensabili per l’accosto delle navi e creando un’area servita da infrastrutture adeguate che sarebbe stata frazionata e ceduta alle industrie a condizioni vantaggiose. Il progetto era mirato a garantire un flusso importante di traffici legati all’esportazione di manufatti e di prodotti agricoli. Tra le agevolazioni previste per gli insediamenti nella nuova “zona industriale”, per la cui definizione legislativa si dovette attendere il 1929, oltre ad esenzioni fiscali, c’era la possibilità di importare in franchigia materie prime e semilavorati destinati alla trasformazione nella zona stessa in vista dell’esportazione. L’idea guida che sosteneva la scelta era quella di avvantaggiare il ruolo dei produttori e degli investitori nell’entroterra, rispetto agli operatori del traffico marittimo. Concetto rafforzato dalla riforma del lavoro portuale varata dal Governo fascista nel 1923, che sopprimendo il privilegio delle compagnie dei lavoratori portuali tendeva a ridurre i costi di manipolazione delle merci. Si puntava, in altri termini, a rafforzare e sostenere un traffico portuale costituito essenzialmente sulle rinfuse (combustibili, minerali, cereali, ecc.), destinate ad essere trasformate sul posto da industrie che avrebbero utilizzato numerosa manodopera nei loro impianti.
Il progetto di ampliamento del porto fu presentato nel maggio 1922 dall’ing. Coen Cagli, legato al gruppo veneziano di Giuseppe Volpi, per conto del Sindacato Italiano Costruzioni Appalti Marittimi (S.I.C.A.M.), che sostituì l’inattivo Ente Autonomo Portuale di Livorno, creato nel 1919 allo scopo di rivitalizzare i traffici portuali livornesi con finanziamenti pubblici e poi soppresso nel 1923.  Il progetto del SICAM, divenuto nello stesso anno concessionario dei lavori, prevedeva l’esproprio di un’area di 1.200.000 mq. a ridosso del porto, destinata alla costruzione di un grande bacino interno orientato verso Nord, con 1.800 metri di alto fondale, di una darsena destinata all’approdo di navi petroliere, accompagnata da una vasta area per l’insediamento di nuove fabbriche e dotata sia di un canale, che di una rete stradale di collegamento. La partita fu completata con la creazione nel 1928 della società per azioni Società Porto Industriale di Livorno (Spil), formata solo da enti pubblici o parastatali, cui sarebbe spettato il compito di completare tutte le opere infrastrutturali (allestimenti banchine, magazzini, raccordi ferroviari, servizi a favore delle imprese), godendo di importanti finanziamenti pubblici sull’esempio di quanto già attuato nei porti di Napoli, Venezia, Trieste e Pola. Nel 1932 fu confermata alla Spil la funzione di gestire la zona industriale, promuovendo e facilitando l’insediamento di nuove industrie e esercitando una sorta di collegamento tra industriali e autorità locali e centrali nella compravendita dei terreni e poco dopo la Spil affidò in subappalto al Sicam i lavori di costruzione di una nuova rete stradale di accesso al Porto industriale, l’approfondimento e il prolungamento del Canale industriale, il banchinamento della sponda Est del Canale dei Navicelli.  I lavori previsti proseguirono per tutto il decennio e, anche se le attrezzature di corredo furono allestite con ritardo, alla vigilia della seconda guerra mondiale Livorno poteva presentare nel complesso un moderno e ben organizzato impianto portuale pur se sovradimensionato rispetto al livello del traffico complessivo e soprattutto mancante di un indirizzo unitario nella sua conduzione. Nel corso degli anni Trenta, infatti, il commercio internazionale si ridusse enormemente in conseguenza della grande depressione del 1929 con effetti dirompenti per i traffici portuali livornesi e di conseguenza anche le richieste di insediamento produttivo rallentarono. Solo i provvedimenti statali di ulteriore, forte sostegno alla produzione nazionale, indirizzata in prevalenza al settore bellico, riuscirono a tamponare la crisi che si era andata determinando e l’insieme delle imprese che si localizzarono intorno all’ambito portuale risultò alla fine imponente (chimica, petrolio, meccanica).  L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 contrasse significativamente le attività portuali, che rimasero per lungo tempo paralizzate prima dai ripetuti bombardamenti alleati e successivamente dall’esercito tedesco in ritirata che fece saltare con le mine gran parte delle attrezzature portuali, bloccando gli accessi al porto con l’auto-affondamento di 130 navi.  La successiva occupazione militare del porto da parte degli Alleati, iniziata nell’estate del 1944 e conclusasi parzialmente solo nel 1947 (l’ultima banchina, la calata Neghelli, venne ceduta dal comando SETAF alle autorità civili nel 1969), il ritardo nelle opere di ricostruzione, ricostruito all’80% nel 1953, e infine i criteri errati adottati per la sua riedificazione determinarono una ulteriore compressione dei traffici. Fino alla fine degli anni Settanta, nonostante le novità intervenute sui mercati internazionali (crescita del mercato estero e soprattutto delle importazioni, diversa composizione merceologica del traffico portuale, l’arrivo dei primi containers a partire dal 1969), l’indirizzo dei decisori politici fu quello di replicare il modello ereditato dal passato, ovverosia mantenere il porto di Livorno come appendice del sistema produttivo locale e per di più mirando alle tipologie di traffico ed alle capacità registrate nell’anteguerra. La conseguenza fu che nello stesso periodo, pur registrando un incremento del suo traffico in volume, il porto di Livorno perse posizioni in termini percentuali rispetto agli altri porti italiani. Fu essenzialmente merito di iniziative imprenditoriali private, strettamente legate all’economia portuale, l’aver intuito e perseguito, con successo, l’obiettivo di inserire Livorno nei nuovi traffici dei containers (Sintermar,1972), posizionandola tra i maggiori porti mediterranei.
Per tornare alla fase della ricostruzione, meritano sicuramente di essere menzionati i finanziamenti pubblici che furono concessi per il dragaggio del porto e che consentirono di portare a meno 11 metri l’imboccatura sud e a meno 9,50 metri l’avanporto ed il canale di accesso. Nel settembre 1944 si verificò un importantissimo avvenimento destinato ad incidere profondamente sul piano dell’organizzazione del lavoro e della ripresa funzionale del Porto. Alcuni imprenditori insieme ad un comitato che rappresentava i lavoratori portuali, le cui tradizionali strutture organizzative erano state sciolte l’anno precedente,  dettero vita  ad un Consorzio cooperativo, con il proposito ed il compito di regolamentare nuovamente l’accesso al lavoro nel porto e di gestire gli impianti già esistenti. L’enormità dei problemi connessi con il periodo qui analizzato condusse ben presto allo scioglimento del Consorzio. Per la parte di organizzazione e regolamentazione del lavoro al Consorzio successe, dopo appena tre anni, la ricostituita Compagnia lavoratori portuali, formata esclusivamente dai lavoratori del porto e destinata ad avere un ruolo protagonista, tra alterne vicende, da allora fino ai nostri giorni. Per quanto riguardava il compito di provvedere al mantenimento degli impianti e al loro miglioramento nel 1949 venne costituita, per disposizione del Ministero della Marina mercantile, l’Azienda dei Mezzi Meccanici e dei Magazzini Portuali, sottoposta alla Capitaneria di Porto e resa parzialmente autonoma, dotandola di personalità giuridica pubblica, solo dal 1967 ed anch’essa protagonista del processo di rilancio e trasformazione del porto. Durante gli anni della ricostruzione emerse con chiarezza la necessità di dotarsi del primo piano regolatore portuale, che fu adottato nel 1953 ed è rimasto in vigore, con successive varianti, fino ai primi mesi del 2015. Predisposto dall’Ufficio del Genio Civile delle Opere Marittime di Roma, se ne prevedeva l’attuazione in varie fasi, realizzando prioritariamente un aumento dei fondali di banchina fino a 9 metri ed incrementando il numero e la portata delle gru. Importante era la specifica destinazione merceologica assegnata alle varie banchine, con la previsione della realizzazione alla Calata Punto Franco di un silos cerealicolo e il miglioramento del sistema dei collegamenti viari. Nell’impossibilità di entrare nel dettaglio delle numerose opere previste occorre comunque segnalare che alcune di esse furono completate molti anni dopo. Fu il caso della realizzazione di un pontile di accosto all’estremità nord di Calata degli Anelli (il Molo Capitaneria) e del prolungamento e allargamento del Molo Elba, dove era prevista originariamente una stazione marittima. Entrambi parzialmente completati solo nel 2002. D’altra parte gli sviluppi delle attività commerciali ed industriali del porto indussero subito dopo il Genio Civile per le Opere Marittime di Roma, in accordo con gli enti competenti e con gli operatori portuali, a predisporre una prima variante al P.R.P., nel 1955. Nel 1958 ebbero inizio contestualmente le operazioni di realizzazione della Nuova Darsena Petroli, completata nel 1965, e della banchina Alto Fondale.
All’inizio degli anni sessanta, con la ricostruzione del porto da tempo iniziata e con l’avvio dei cantieri per la costruzione di parte delle nuove opere previste dal P.R.P., a fronte dell’incremento consistente dei traffici che caratterizzò l’intero decennio, il fabbisogno di nuove aree e banchine crebbe considerevolmente. A fronte di ciò la Camera di Commercio si fece promotrice, nel novembre del 1960, di una richiesta alla Direzione Generale per le Opere marittime per la modifica delle previsioni del P.R.P. relativamente alla banchina della Darsena Pisa, prevedendo per essa un fondale a –12 metri anziché a –4 metri allo scopo di valorizzare una vasta area retrostante per lo sviluppo di nuove attività industriali ( poi Silos e Magazzini del Tirreno ). La richiesta fu tradotta in una ulteriore Variante al P.R.P., che prevedeva anche le opere di escavo del canale di accesso al Porto Industriale per il suo raccordo con il nuovo bacino di evoluzione.
Il forte sviluppo del porto di Livorno nei primi anni del dopoguerra fece emergere la necessità di dare un forte impulso alla pianificazione e realizzazione di nuove opere di grande infrastrutturazione. La Camera di Commercio di Livorno raccolse questi bisogni proponendo di avviare gli studi per l’elaborazione di un nuovo Piano Regolatore Portuale, assegnandone il compito ad un’apposita commissione presieduta dall’ing. P.Vian e insediata l’8 maggio 1965, in previsione dei finanziamenti che sarebbero stati assegnati con il Piano Porti, il cosiddetto “Piano Azzurro”.  La proposta, rimasta sulla carta per le numerose obbiezioni sollevate in merito all’onerosità (65 miliardi di lire), vastità e complessità delle visioni formulate, ma destinata a suscitare un articolato dibattito sulle possibilità di ammodernamento delle strutture portuali, prevedeva un’ulteriore espansione del porto a nord di Livorno, tra la Diga del Marzocco e la foce dello Scolmatore d’Arno. Dopo aver proposto il dragaggio del canale di accesso al porto a -16 metri, veniva ipotizzata una nuova Darsena Petroli nella parte più esterna dell’opera e di tre nuove darsene per uso esclusivamente commerciale. Il progetto menzionava anche l’infrastrutturazione del porto passeggeri con la realizzazione di una Stazione Marittima per accogliere il traffico turistico-transatlantico diretto verso la regione Toscana e l’Italia Centrale, da collocarsi nel Porto Mediceo (Darsena Morosini). In realtà essa fu realizzata molti anni dopo, nel 1986, ristrutturando il magazzino merci già esistente sulla Calata Carrara.  Nello studio alle navi traghetto era assegnato invece un accosto all’inizio della Banchina Alto Fondale e l’utilizzo di un secondo accosto alla radice della Darsena Pisa. Il piano prevedeva anche la realizzazione di un secondo bacino di carenaggio per navi fino a 100.000 ton., in adiacenza a quello già atteso nello specchio d’acqua dell’avanporto tra il faro e il Molo Mediceo. Opera, quest’ultima, prevista fin dal 1962 e realizzata tra il 1967 ed il 1975 ad opera di un consorzio volontario appositamente costituitosi tra Provincia, Comune, Camera di Commercio, Cassa di Risparmi di Livorno, Monte dei Paschi di Siena e Banco di Napoli, con l’intento a rilanciare le attività di riparazione navale del Cantiere navale F.lli Orlando, che aveva subito un forte ridimensionamento produttivo proprio a partire dal 1962.
I ritardi registrati nell’attuazione delle previsioni del P.R.P., soprattutto per quanto riguardava le opere infrastrutturali, in connessione con gli sviluppi quantitativi e qualitativi dei traffici commerciali, convinsero  nel 1971 l’Ufficio del Genio Civile OO.MM. ad elaborare una proposta di nuovo Piano Regolatore Portuale. Prendendo spunto dalla discussione originata dal progetto Vian, il piano, tra altre importanti opere, prevedeva la realizzazione di due darsene a nord della Diga del Marzocco denominate rispettivamente Darsena Toscana e Darsena Europa con fondali a –13 metri. Accogliendo i rilievi espressi in merito sia dalla Capitaneria di Porto che dal Comune di Livorno, nonché le pressanti richieste della Camera di Commercio e di tutti gli operatori portuali, venne varata nel 1973 una variante al P.R.P. che, con particolare riferimento al traffico containers,  pronosticava la realizzazione della nuova Darsena Toscana. Essa sarebbe stata ubicata nel tratto tra la Torre del Marzocco e l’innesto nel canale dello Scolmatore d’Arno, per circa 200 metri con un fondale di 13 metri. I lavori, iniziati nel 1976 e protrattisi fino al 2014, hanno consentito al porto di Livorno di disporre oggi di un terminal container con una capacità di 900.000 teus all’anno, collocandolo tra i più importanti terminal contenitori in Europa.
Un cenno, fugace ma necessario, merita, a dimostrazione delle velocissime trasformazioni che hanno da allora interessato i traffici portuali e del nuovo approccio di politica infrastrutturale che stava maturando da parte del sistema di governo locale, l’affidamento nel maggio 1980 alla Società Bonifica del gruppo IRI – ITALSTAT dello studio per la redazione di un nuovo Piano Regolatore del Porto di Livorno.  L’analisi, presentata nel 1982, prendeva in considerazione le ipotesi di sviluppo dei traffici, formulando ipotesi per lo sviluppo delle infrastrutture portuali. Nell’analisi realizzata veniva sostenuto che ogni ulteriore espansione delle banchine e dei piazzali portuali fosse possibile solo a mare con la realizzazione della nuova Darsena Europa. La discussione, che si sviluppò dal 1982 al 1987, si caratterizzò per l’opposizione netta sia da parte della Capitaneria di Porto di Livorno che da parte del Genio Civile OO.MM. Entrambi facevano riferimento al Piano Generale dei Trasporti, che nel frattempo era stato varato a livello nazionale e che prevedeva l’istituzione dei “Sistemi portuali” o “Sistemi di trasporto integrato”, con i quali si intendeva realizzare dei complessi economico-territoriali che garantissero l’attuazione del trasporto intermodale delle merci utilizzando la complementarietà dei vettori marittimo, stradale, ferroviario, idroviario ed aereo. Entrambi i soggetti concordavano sul fatto che la previsione di una ulteriore espansione a mare delle infrastrutture portuali sarebbe entrata in conflitto con le direttive nazionali. Al suo posto si proponeva un modello portuale diverso, prevedendo l’espansione degli impianti portuali verso terra, nell’adiacente territorio pisano, in modo da costituire un sistema infrastrutturale caratterizzato da vaste aree operative attrezzate a ridosso delle banchine, servite da una via d’acqua interna navigabile e situate in prossimità di un aeroporto internazionale. Emergeva inoltre la vecchia e mai abbandonata filosofia d’insieme che il porto di Livorno non potesse dimensionare la sua crescita ed il suo sviluppo solamente sul traffico commerciale a discapito delle tradizionali attività industriali e cantieristiche e che perciò avrebbero dovuto essere previste, nel nuovo P.R.P., le aree necessarie e le banchine specializzate indispensabili per il sostegno e lo sviluppo delle citate attività. Tali osservazioni contribuirono a bloccare di fatto il progetto di nuovo P.R.P. redatto dalla Società Bonifica. Nell’occasione occorre notare che lo sviluppo della portualità livornese, nei decenni dal 1950 fino a tutti gli anni Novanta, oltre a soffrire delle più volte menzionate difficoltà strutturali, continuò a scontrarsi con la mancanza di un indirizzo unitario nella conduzione del porto che impedì di raggiungere economie di scala indispensabili per affrontare l’agguerrita concorrenza nazionale ed internazionale. La costante conflittualità esistente tra gli stessi operatori portuali emerse in modo più che evidente nel corso degli anni Ottanta, quando accanto ad un forte rallentamento dei traffici, fu dato il via ad un confronto serrato tra imprenditori portuali e la Compagnia Lavoratori Portuali per il controllo della costruenda Darsena Toscana (e dell’importantissimo traffico dei containers). Le conseguenze di un mancato accordo tra le parti ricaddero sulla funzionalità dello scalo livornese, che, mancando un fronte unico di interessi economici, subì l’estrema lentezza dei finanziamenti pubblici necessari per il completamento delle infrastrutture necessarie (escavi e collegamenti viari e ferroviari) e perse ulteriore competitività sui mercati.
Nel 1987 fu costituita su sollecitazione degli enti locali e della Regione Toscana la società Interporto Toscano Amerigo Vespucci S.p.A. allo scopo di dotare il porto di Livorno di una moderna e competitiva struttura di scambio per trasporti intermodali, utilizzando una vasta area pianeggiante nell’immediato hinterland della zona portuale e strategicamente importante per le connessioni stradali e ferroviarie. L’opera, i cui lavori sono andati avanti per anni con notevoli difficoltà sia di natura tecnica che finanziaria, si sostiene che ad oggi possa essere considerata completa e pienamente operante, anche se manca ancora un importante tassello all’insieme, in quanto non si è ancora realizzata la prevista navigabilità dello scolmatore dell’Arno, in modo da creare un collegamento immediato per il trasporto delle merci dalle banchine portuali. Nelle immediate vicinanze dell’Interporto è situato l’autoparco “Il Faldo”, inaugurato nel 2004 dalla Autotrade & Logistics, società creata in joint venture fra il gruppo Koelliker di Milano (azionista di riferimento) e la Compagnia Impresa Lavoratori Portuali, dove vengono stoccate le autovetture scaricate nel porto: una movimentazione iniziata nei primi anni Sessanta e proseguita nei decenni successivi con un volume di traffico costantemente in crescita. Questa ed altre iniziative imprenditoriali affondano le proprie radici nei profondi mutamenti intervenuti nell’ambito normativo dell’organizzazione del lavoro portuale, inaugurati nel 1989 dai decreti del ministro Prandini e completati con la riforma nazionale dei porti del 1994.  La legge 84 del 1994 fu l’inizio di un percorso che doveva portare allo smantellamento delle Compagnie portuali, così come erano strutturate con l’art. 110 del Codice della Navigazione, che per decenni aveva ad esse garantito l’esclusività del lavoro in banchina. Al loro posto sorsero, è nello specifico il caso di Livorno con la Compagnia Impresa Lavoratori Portuali, vere e proprie imprese destinate a confrontarsi liberamente sul mercato e a conquistarsi duramente, attraverso alleanze strategiche, importanti spazi operativi soprattutto nel settore della movimentazione containers.
E’ stata ricordata più volte nel corso di questa sintetica presentazione la notevole importanza economica per il porto di Livorno dei traffici di prodotti chimici, idrocarburi e dei derivati, che ne hanno accompagnato la crescita e la specializzazione. Un riferimento obbligato, sia pur brevissimo, va fatto alla presenza nell’ambito portuale del deposito più grande in Italia di gas di petrolio liquefatto (G.P.L. propano) e secondo in Europa dopo il deposito della Primagaz di Lavéra nei pressi di Marsiglia, gestito dalla Costiero Gas Livorno S.p.A. . Situato nella parte più interna del porto industriale e petrolifero, l’impianto è destinato allo stoccaggio del GPL in serbatoi sotterranei ricavati in uno strato argilla, la cui portata massima è stimata attualmente in circa 21.000 tonnellate.
Un finale riferimento, concludendo, va riservato ad un elemento importantissimo nel panorama economico portuale per le sue ricadute in ambito locale e regionale: il traffico passeggeri e quello crocieristico nel 2014 hanno raggiunto complessivamente le 2.500.000 unità. Si tratta di un dato di significativo rilievo, che da anni è oggetto di grande attenzione da parte degli operatori e merita, per le sue peculiarità, di rinnovate strategie di accoglienza e di servizi adeguati. Risulta quindi un settore non accessorio, ma strategico per lo sviluppo delle attività del porto, dal momento che tutti gli analisti ne prevedono per il futuro una crescita pluriennale costante.
La legge 28 gennaio 1994 n. 84 ha profondamente mutato il quadro normativo e culturale della pianificazione delle aree portuali sintonizzandosi con le dinamiche complessive dei porti, dei soggetti imprenditoriali che in essi operano e con un rinnovato rapporto con la città ed il territorio. In ottemperanza delle disposizioni di legge venti anni fa, nel 1995, con la nascita a Livorno della prima Autorità Portuale in Italia si apriva una pagina nuova nella vicenda dei traffici marittimi. Da allora si sono poste le premesse per garantire al porto una governance unica, precisa e ben determinata, cui affidare la funzione di assicurare risposte adeguate alle sfide che quotidianamente vengono poste dall’esterno alla concorrenzialità dello scalo marittimo livornese e garantire con ciò lo sviluppo. La globalizzazione dei mercati e la loro evoluzione, le innovazioni relative al trasferimento delle merci e dei passeggeri, il gigantismo navale, le esigenze dei più significativi vettori internazionali pongono richieste di flessibilità che, se possibile, dovrebbero essere preavvertite ed anticipate rispetto alla loro formulazione esplicita.
I venti anni appena trascorsi rappresentano pienamente le difficoltà sul cammino per raggiungere tale obbiettivo. In questo laborioso e complesso passaggio alcuni significativi passaggi vanno ricordati: la realizzazione agli inizi del nuovo millennio del Molo Italia e la sua piena utilizzazione con il dragaggio del lato Nord a -13 metri (2014), la costruzione di un micro tunnel sotto il canale di accesso al porto industriale, destinato ad accogliere le condotte dell’ENI e garantire l’aumento fino a 100 metri della sezione navigabile del canale, consentendo l’accesso al porto delle navi da 8.000 teu, la concessione di un cofinanziamento comunitario per realizzare un collegamento ferroviario diretto con l’Interporto Amerigo Vespucci, scavalcando la linea tirrenica (2015). I segnali di una positiva ripresa delle attività registrati negli ultimi due anni si accompagnano all’approvazione del nuovo P.R.P., nei primi mesi del 2015, che segna una netta chiusura rispetto al passato ed apre una fase di difficile, ma oggi possibile confronto con i nuovi scenari internazionali. Resta da sottolineare il fatto che, dopo una parentesi durata quasi due secoli e in un mondo totalmente trasformato, il porto (ovverosia l’universo di soggetti che vi operano) torna finalmente a guardare alla propria missione di sviluppo vincolandosi prioritariamente e prevalentemente alla vocazione commerciale, senza peraltro dimenticare  che  la vera competizione oggi si sviluppa tra territori per la loro capacità di offrire servizi e interconnessioni logistiche. Nella visione d’insieme del nuovo P.R.P. il porto e le sue attività dovrebbero conseguentemente divenire un polo attrattivo per l’accrescimento di conoscenze, competenze e innovazioni, realizzando così con la città un riavvicinamento di interessi, non solo auspicabile, ma assolutamente necessario per garantirne il successo.